Venezia è la città delle maschere.
Venezia, famosa per i suoi carnevali, per i travestimenti, le avventure amorose e gli intrighi, non sarebbe stata la stessa senza le maschere, soprattutto nel Settecento.
Mascherarsi sia per gli uomini che per le donne, voleva dire essere anonimi e quindi più liberi di trasgredire, dando sfogo agli istinti più repressi che spesso erano negati dalla società.
Le maschere permettevano tutto questo. Scopriamo come.
In maschera solo per le occasioni
“Buongiorno Siora Maschera”: era questo il saluto che risuonava nelle calli quando si incontrava qualcuno in maschera.
Ma quale era il momento giusto per mascherarsi? Le maschere non si usavano tutto l’anno, ma solo dal giorno di Santo Stefano, data di inizio del carnevale veneziano, fino alla mezzanotte di martedì grasso.
Se durante tutte le festività religiose le maschere erano proibite, potevano però essere usate anche durante i giorni della fiera dell’Ascensione (la Sensa) e dal 5 ottobre al 16 dicembre.
Inoltre durante le feste per l’incoronazione dei dogi e quelle organizzate per i personaggi illustri in visita, si poteva indossare il tabarro e la bauta.
Insomma, come potete intuire, il periodo in cui si poteva stare in maschera era molto lungo, tanto che erano ormai diventate una sorta di abito “da tutti i giorni” adatto alle esigenze di veneziani e foresti.
Alcune leggi curiose
A Venezia, dove l’usanza di mascherarsi è molto antica, ci furono sempre delle leggi specifiche in materia.
Il più antico documento che riguarda le maschere è del 1268 e proibisce agli uomini in maschera di praticare il gioco delle ova, cioè il lancio di uova riempite di acque profumate alle dame che passavano nelle calli.
Tra le leggi più curiose, quella del 1339 proibiva di andare in giro di notte mascherati. La legge del 1458, invece, vietava agli uomini di introdursi mascherati da donna nei monasteri, per compiere “multas inhonestates” con le monache.
Questo ultimo divieto lo troviamo anche in altre leggi dei secoli successivi. Evidentemente questa regola non era molto rispettata!
Altre leggi riguardavano il divieto di portare le armi mentre si indossava la maschera (armi che si potevano facilmente nascondere sotto i tabarri).
Nel 1606 si vietò alle maschere di entrare nelle chiese. Dal 1608 le prostitute, scoperte ad indossare la maschera, potevano essere frustate nel tratto di strada tra San Marco e Rialto, o poste alla berlina tra le colonne della Piazza, poi multate e bandite dalla città.
Per contro nel 1776 fu imposto alle dame di andare a teatro solo in maschera. Come mai vi chiederete a questo punto?
A quanto pare si voleva metter fine a quella “indecente licenziosa libertà che si vede in ora nei teatri introdotta”.
Le donne per il Consiglio dei Dieci erano troppo scostumate e quindi era meglio si coprissero con tabarro e bauta.
I maschereri
Secondo alcuni documenti, Enrico Dandolo, aveva visto passeggiare delle donne a Costantinopoli, con il volto protetto da una pezzuola di velluto forata sugli occhi. Fu lui, a detta di alcuni, a portare a Venezia il prototipo delle maschere.
E’ nel 1436 però che dall’arte dei dipintori nasce la professione dei “mascareri”o “maschereri” con un loro Statuto. Tra 1530 e 1600 erano 11 coloro che erano iscritti all’arte dei dipintori con la dicitura “mascherer” e tra questi anche una donna.
Insieme ai maschereri operavano anche i targheri, che erano coloro che fabbricavano le maschere in cartapesta.
Le maschere più famose
Vediamo ora alcune delle maschere che a Venezia più famose.
La “maschera nazionale” della Serenissima era la bauta.
La bauta era indossata proprio da tutti: uomini, donne, nobili, plebei e anche forestieri, una specie di abito d’uso che rendeva tutti uguali.
Quando si parla di bauta non si intende solo la maschera bianca (che in realtà si chiama larva o volto) ma l’insieme di mantellino con una specie di cappuccio (che a volte per le donne era in merletto di Burano), tricorno e larva. Il tricorno non si poteva togliere dal capo perché teneva bloccata la maschera che, grazie alla sua forma, permetteva di bere e di mangiare facilmente.
La moretta era invece una maschera ovale in velluto nero portata dalle donne. Stava attaccata alla faccia grazie ad un bottoncino che si doveva tenere in bocca e quindi era impossibile parlare, creando attorno a sé un aura di mistero. Cosa non si fa per la moda!
La gnaga probabilmente prende il suo nome da “gnau” cioè il verso del gatto. A Venezia si diceva infatti “aver una ose da gnaga”, cioè avere una voce poco piacevole.
Era una maschera che veniva indossata da uomini giovani e buontemponi, in alcuni casi per manifestare il loro lato più femminile, che si travestivano da donna e si divertivano ad usare un linguaggio volgare.
Per concludere vorrei citare Carlo Goldoni che ne “La Mascherata” a proposito del Carnevale dice:
Qua la moglie e là il marito,
Ognuno va dove gli par;
Ognun corre a qualche invito,
Chi a giocare e chi a ballar.Par che ognun di carnovale
A suo modo possa far;
Par che ora non sia male
Anche pazzo diventar.Viva dunque il carnovale
Che diletti ci suol dar.
Carneval che tanto vale,
Che fa i cuori giubilar.
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